Letterature in inglese
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Quando nei primi anni Settanta il premio Nobel per la letteratura venne conferito all’australiano Patrick White, molti pensarono che fosse stato premiato un inglese. Ogni possibilità d’equivoco svanì negli anni più vicini a noi, quando il Nobel andò al nigeriano Wole Soyinka, alla sudafricana Nadine Gordimer, al caraibico Derek Walcott. L’indiano di Trinidad V. S. Naipaul e l’indiano dell’India Amitav Ghosh, la canadese Margareth Atwood e il sudafricano J. M. Coetzee, l’australiano Peter Carey e il nigeriano Chinua Achebe, per non parlare di Salman Rushdie, sono universalmente riconosciuti come alcuni dei maggiori scrittori di lingua inglese della seconda metà del Novecento. Quel che più conta è che questi autori non sono figure isolate, ma esponenti di spicco di una moltitudine di voci affascinanti e diversissime, unite però dalla stessa lingua, che si sono levate dagli angoli più lontani del globo per comunicare il proprio mondo con gli strumenti e le forme della letteratura.
Gli studiosi che per primi si sono occupati di quelle voci dovettero superare non solo la diffidenza dell’accademia, ma anche la loro stessa difficoltà nel trovare una categoria critica che comprendesse, dandole così forza, la varietà delle esperienze letterarie che intendevano valorizzare. Negli anni Settanta si consolidò l’etichetta Letteratura del Commonwealth, che aveva fornito il nome alla prima e tuttora più affidabile rivista del settore, il Journal of Commonwealth Literature, e alle prime cattedre che nelle università anglosassoni erano state dedicate all’insegnamento e allo studio della neonata disciplina.
Tale definizione – osservò provocatoriamente Salman Rushdie in un saggio del 1983, intitolato Non esiste una letteratura del Commonwealth – era storicamente imprecisa, ancor prima che criticamente, ed era piuttosto sospetta: “un concetto segregazionista da un punto di vista topografico, nazionale e magari topografico”. Rushdie invece ragionava intorno ad un’ipotesi assai diversa, che da un lato rilevava le enormi diversità esistenti tra gli scrittori “del Commonwealth” e dall’altro ne ritrovava la vicinanza nell’uso della stessa lingua letteraria. E poiché per lui “letteratura inglese” aveva significato sempre semplicemente letteratura scritta in inglese, proponeva semmai di parlare di letteratura in inglese con varie diramazioni, indiana, australiana, canadese, e così via. Nelle conclusioni, suggestivamente, immaginava una specie d’unità nella diversità delle varie diramazioni: “Per quanto concerne la letteratura inglese, ritengo che se tutte le letterature inglesi potessero venir studiate insieme, emergerebbe una forma in grado di riflettere effettivamente la nuova dimensione della lingua del mondo”.
La posizione di Rushdie è rimasta l’intuizione di uno scrittore, che la critica ha preferito ignorare. Per la verità nulla vieta d’affrontare come parte dello studio della letteratura inglese moderna gli autori delle varie “diramazioni”, conferendo loro tutto il rilievo che essi compete (il timore è quello di favorire involontariamente una soluzione anglo-centrica, un annullamento delle diversità attraverso un’appropriazione imperialistica da parte delle ex-Impero). Tuttavia il punto di partenza – il riconoscimento dell’esistenza di letterature in inglese – è innegabile.
Uno dei primi saggi sull’argomento, Literatures of the world in English (a cura di Bruce King, pubblicato nel 1974), aveva prospettato una specie di mosaico di “letterature in inglese”, sottolineandone però la diversità. Esse facevano sì riferimento ad un comune retroterra culturale e letterario britannico; ma era legittimo distinguerle per aree nazionali a partire dalla considerazione che i critici dei paesi di lingua inglese avevano da tempo cercato di definire nazionalmente le loro letterature (in base a caratteristiche distintive nell’uso della lingua, al rapporto con la comunità che le esprimeva, alla presenza d’aspetti culturali e tematici tipici) per affermare così la propria identità, per riconoscersi non come parte di un ex-Impero, ma come collettività autonoma, con una propria produzione artistica ed un proprio profilo letterario.
Indipendentemente dal fatto che si ragioni in termini di letterature nazionali o meno, è però necessario operare una distinzione tra di esse in base ad un fattore storico-linguistico d’importanza decisiva. È la distinzione tra i paesi in cui l’inglese è la lingua nazionale parlata da una popolazione che nella quasi totalità è d’origine europea e quelli in cui l’inglese, la lingua dell’Impero, è una seconda lingua, capita da molti ma scritta da un’élite, affiancatesi a quelle parlate dalle popolazioni locali.